Parisotto + Formenton

Aldo Parisotto e Massimo Formenton sono due architetti scrupolosi, la cui idea di misura, equilibrio e semplicità caratterizza ogni progetto, sia esso architettonico, di interior, di retail o product design

di Alessia Delisi

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Formatisi alla metà degli anni Ottanta allo IUAV di Venezia, il loro sodalizio avviene nel 1990 quando, non ancora trentenni, aprono lo studio Parisotto+Formenton Architetti la cui ampiezza e trasversalità di esperienze è ora oggetto di una preziosa monografia che raccoglie trent’anni di attività e testimonia il bisogno di guardarsi indietro per ripensarsi avanti. Così, dall’interior all’exhibit e retail design, dalle abitazioni private agli edifici commerciali fino ai prodotti che riducono la scala ma non la qualità del progetto, lo studio, con sede a Milano e Padova, si racconta attraverso la voce gentile e mai autoreferenziale di Aldo Parisotto. Che parla di retail, certo, ma anche del sogno di contribuire al futuro della città, tornando a realizzare gli spazi dell’arte che più ama.

Qual è il vostro approccio al progetto?

Partirei, nel rispondere, dal terzo e ultimo libro che io e Massimo Formenton abbiamo realizzato con Electa per celebrare i nostri trent’anni di sodalizio. Questo libro, così come il primo, che raccoglieva 18 anni di attività, la cosiddetta “maturità professionale”, dimostra la trasversalità delle discipline da noi affrontate attraverso progetti che vanno dall’architettura all’interior. Oltre al retail, che è il nostro core business, realizziamo infatti moltissime residenze, ma anche, facendo un salto di scala, il product design. Ricordo che abbiamo iniziato tanti anni fa con i prodotti per l’illuminazione, perché, non trovandone che potessero soddisfare le nostre esigenze in un progetto di interior, abbiamo creato dei prodotti customizzati che sono poi diventati di serie, entrando di diritto nei cataloghi delle aziende. È questa la forma mentis, il know how dello studio: anche quando c’è un cambio di scala, dal prodotto all’interior fino all’architettura, il nostro resta un approccio olistico, focalizzato sulla materia, la luce, i sensi e le emozioni.

Che tipo di relazione instaurate con i committenti e quanto li trovate disposti a sperimentare?

I committenti che si rivolgono a noi sanno che il nostro desiderio è realizzare un prodotto di qualità, un’opera, se di grande scala, che abbia un significato. E sanno che per forza di cose sperimenteremo. Non replichiamo mai un codice – al limite alcune sperimentazioni positive, ma solo come esperienza – perché vogliamo che il prodotto finale riesca sempre diverso. Il rapporto con i committenti può quindi essere molto intimo, simbiotico quasi, quando realizziamo le loro residenze, e qui lo scopo mio e di Massimo è guidarli, facendo loro scoprire cose nuove.

Quali differenze riscontra invece tra la committenza italiana e quella internazionale?

Le differenze sono tantissime, la committenza internazionale è estremamente preparata nel management del progetto. Questo significa che quando scelgono un architetto si affidano completamente a lui. Al contrario, quello italiano è un committente più “emozionale”.

Progettare per il settore retail: quali regole seguite?

Il retail è per noi un grandissimo motore di ricerca e soprattutto di sperimentazione. Lavorando con brand tanto della moda quanto del food possiamo dire che lo studio del marketing è fondamentale. L’architetto è infatti al servizio del retail, perché l’azienda ha un obiettivo commerciale, deve in altri termini comunicare il prodotto o la brand identity.

Come si sta evolvendo questo settore? E quali sono secondo lei i trend che più lo influenzeranno?

Fino a dieci anni fa si tendeva a replicare il progetto in scale diverse in qualsiasi paese. Oggi viviamo invece un momento storico assai più stimolante – significativo è stato in questo senso l’esempio di Aesop – perché la tendenza ormai è quella di offrire in ogni città un’esperienza nuova, avendo capito che un format replicato ovunque non crea emozione. Ci sono addirittura brand che scelgono architetti diversi per ogni paese, dando loro ovviamente un brief preciso, perché, come dicevo, c’è una brand identity da rispettare. Uno dei fattori che ha maggiormente contribuito a rivoluzionare il mercato è poi l’e-commerce: i negozi dei grandi brand sono degli showroom dove le persone – e i millennial in particolare – vanno a vivere una nuova esperienza. Lo spazio quindi deve essere totalmente incentrato sull’impatto emotivo. Io credo che in futuro il prodotto sparirà, mentre si farà sharing di esperienze. Non è un caso che uno dei nostri ultimi progetti, l’Eraldo Hub di Ceggia, in provincia di Venezia, consista in un centro logistico per la moda caratterizzato da una straordinaria cura per il dettaglio.

Come vede il futuro del progetto architettonico?

In un territorio come l’Italia, dove c’è poco ancora da costruire, il futuro è riqualificare le città, dando nuovo valore ai monumenti e demolendo gli edifici insostenibili per ricostruirne altri di qualità, magari a emissioni zero. Questo per quanto riguarda le città. Fuori invece mi piacerebbe che non costruissimo più elementi visivi, bensì case ipogee, capaci di mimetizzarsi nel territorio.

A proposito di edifici insostenibili, qual è la sua idea di sostenibilità?

Tendo a dare per scontato che nella visione di un architetto ci sia l’utilizzo di materiali riciclabili, non tossici e non dannosi per l’ambiente. Bisogna costruire edifici a emissioni zero da un lato e dall’altro prodotti che tra venti o trent’anni saranno ancora degli evergreen. La sostenibilità vera sta nel good design e nella buona architettura.

Parlando di product design, come coniugate estetica e funzionalità nelle vostre creazioni?

Quello che è più interessante oggi nel product design – rispondendo alla funzione, che per me è uguale alla bellezza, come diceva un grande maestro, Mies van der Rohe – è che questo deve assolvere le esigenze delle nuove ergonomie. Perché infatti progettare altri mobili quando ce ne sono già tantissimi? Perché negli ultimi anni stiamo assistendo a un grandissimo cambiamento della società, soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro. L’attenzione di un designer deve quindi essere rivolta alle nuove ergonomie che i cambiamenti sociali indotti dal lavoro stanno generando.

Qual è la costante del vostro stile?

Senza dubbio l’approccio olistico. Le nostre architetture poi non vogliono mai essere autoreferenziali, perché quando progettiamo non pensiamo all’edificio come a una scultura che ci rappresenti nella città, bensì definiamo una funzione utile alla comunità.

E con quale nuovo progetto le piacerebbe misurarsi in futuro?

Sicuramente la grande scala: mi piacerebbe contribuire alla visione della città futura. Ma vorrei anche realizzare dei progetti per la cultura, dei musei per esempio, capaci di far “crescere” la collettività. Ecco, una delle mie più grandi ambizioni è tornare a progettare un museo, perché rimane per sempre. Come la buona architettura del resto: anche quella rimane per sempre.