Origin of Simplicity

L’ADI Design Museum esplora le origini della semplicità nel design giapponese. E di quel culto della sottrazione che noi occidentali fatichiamo ancora a mettere in pratica

di Cecilia Moltani

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L’essenzialità delle forme, la cura estrema dei particolari, l’originalità di ciascun pezzo pur nella continuità della tradizione, coniugate a una ricerca ingegneristica che sviluppa nuovi materiali e il riciclo di quelli di scarto, sono specificità che rendono il design giapponese un’icona internazionale. A Milano, fino al 9 giugno 2024, l’ADI Design Museum presenta la mostra Origin of Simplicity. 20 Visions of Japanese Design: uno sguardo trasversale tra design e artigianato per comprendere le origini del concetto di semplicità, ora declinabile come vuoto (ku), spazio o silenzio (ma), talvolta leggibile come povertà (wabi) e consunzione legata all’uso nel tempo (sabi).

La curatrice Rossella Menegazzo, insieme al designer nipponico Kenya Hara a capo del progetto grafico e di allestimento, ha concepito il percorso come una foresta dove passeggiare. Ogni albero raggruppa le opere che sono espressione di una stessa qualità, accostamenti inediti di lavori di diversi designer e artigiani, attraverso cui il tema della semplicità viene declinato attribuendo parole chiave che aiutano la lettura. In mostra sono presenti oltre 150 opere, progettate da nomi che hanno segnato la storia del design giapponese a partire dagli Anni 60, ma anche esponenti delle ultime generazioni.

L’esposizione, nata con il supporto della Ishibashi Foundation di Tokyo e dell’azienda giapponese Yamagiwa che ha curato il progetto di illuminazione, intende sottolineare la sapienza artigianale tramandata di generazione in generazione attraverso botteghe, laboratori storici e antiche maestranze. Una conoscenza secolare che rivela una predilezione per i materiali naturali, su tutti legno, carta, metallo, ceramica e tessile. Questo approccio evidenzia, quindi, lo stretto legame tra design e artigianalità, tra materia e uomo, tecnica e tecnologia, che sottende tutta la produzione giapponese. 

Ogni pezzo esposto risuona nello spettatore determinati concetti che hanno radice in correnti di pensiero opposte alla razionalità occidentale: dal buddhismo zen all’animismo shintoista, dalla celebrazione dell’imperfezione espressa dal Wabi-sabi fino all’Ikigai, lo scopo che rende ogni vita degna di essere vissuta. Il design giapponese, infatti, sembra essere pervaso da una filosofia che fatichiamo ancora a incorporare nel nostro dna: quella della semplicità. Non della banalità. O dell’ingenuità. Ma della sottrazione.

D’altronde la civiltà occidentale non è stata abituata a sottrarre – con l’evidente eccezione dei paesi nordici – in un mondo nevrotico, sovrastimolato e consumista che incentiva l’iperproduzione. Come potremmo togliere anziché aggiungere? Fare più cose insieme – non importa se male – è indice di prestigio, porta al riconoscimento e alla validazione sociale. Ecco, forse, perché siamo così attratti da chi ha un apparato culturale – e quindi di pensiero – diverso dal nostro. O meglio, completamente opposto.