’60 Pop Art Italia

La Dolce Vita negli anni del boom economico. A Pistoia una mostra ricostruisce i costumi della società di massa attraverso le opere dei maggiori esponenti italiani della Pop Art

di Cecilia Moltani

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Colori sgargianti. Effetti cartellonistici. Raffigurazioni di oggetti quotidiani, banali, svuotati di ogni sacralità artistica. I tratti distintivi della Pop Art li conosciamo tutti. A Pistoia, Palazzo Buontalenti allestisce dal 16 marzo al 14 luglio 2024 la mostra ’60 Pop Art Italia, curata da Walter Guadagnini. Un viaggio attraverso le capitali pop del nostro paese – Roma, Milano, Torino, Venezia, Palermo e Pistoia – grazie a un corpus di 60 opere dei maggiori esponenti italiani di quella corrente nata in Inghilterra negli Anni 50 e fiorita in America nel decennio successivo, tra cui Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Mimmo Rotella, Mario Ceroli, Pino Pascali, Fabio Mauri, Jannis Kounellis, Renato Mambor, Titina Maselli, Giosetta Fioroni, Laura Grisi, Roberto Barni, Umberto Buscioni, Adolfo Natalini e Gianni Ruffi.

Questi grandi nomi non hanno semplicemente replicato la moda americana, ma l’hanno rielaborata attingendo al vastissimo patrimonio culturale nazionale. Ognuno di loro, infatti, ha intercettato e rappresentato a suo modo i fermenti culturali dell’Italia degli Anni 60, del boom economico, della Dolce Vita, del nascente consumismo di massa. Introducendo, anche nell’arte, un nuovo concetto: quello della riproduzione in serie.

L’opera d’arte diventa riproducibile, viene massificata e standardizzata, ma per questo anche democratizzata, stabilendo nuove connessioni, nuovi sillogismi, prima impensabili: se Marylin Monroe beve Coca Cola e io bevo Coca Cola, allora io posso essere Marilyn Monroe. La diva del cinema, prima considerata un’icona sacra e irraggiungibile, cade, la distanza con il suo pubblico viene atomizzata e sbriciolata, e lei perde la sua aurea di mito.

Tuttavia, sarebbe anacronistico leggere la Pop Art italiana come una critica feroce, illuminata e fatalista, della società di massa degli Anni 60. Gli stessi artisti, dopotutto, ne erano parte integrante. Vivendo il cambiamento dall’interno sarebbe stato difficile – se non impossibile – tracciarne le premesse e le logiche in modo lucido e disincantato. Non furono, quindi, sentinelle dello spreco, non misero in guardia dal rischio di un consumismo sempre più sfrenato e fagocitante, ma ebbero il merito di trovare una risposta alla crisi che stava attraversando l’Arte Informale in Italia e l’Astrattismo in America.

La Pop Art, infatti, non fu un’arte concettuale o emozionale, quanto un’arte pragmatica, pubblicitaria, quasi fumettistica. Funse da ponte identitario tra le persone e le loro ‘cose’, laddove il futuro non era più velato dalla miseria della guerra ma ricco di cibo, automobili, elettrodomestici, allora più dei miraggi insperati che demoni della produzione di massa. Gli artisti in mostra riuscirono a storicizzare questo cambiamento sociale, questa svolta epocale, e ne furono i cantori: nel bene e nel male. Producendo bellezza. E quella, di sicuro, non può essere un male.