Gabriele e Oscar Buratti

Dal pensiero al prodotto e viceversa. Interpretando diverse scale di progetto. È il metodo dei fratelli Buratti. Ne parliamo con Gabriele, partendo dai suoi primi lavori: lettini e armadi realizzati per le bambole delle amiche

di Claudio Moltani

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Gabriele e Oscar Buratti Design, Buratti Architetti e ora Buratti Numi Viganò Architetti, sono le sigle che definiscono la creatività e il lavoro di Gabriele e Oscar Buratti, nei differenti ambiti dell’interior, dell’architettura e del design d’arredo. Settore per il quale vantano, fra le molte, collaborazioni con B&B Italia, Porro, Lema, Frag, Frigerio, Living Divani, Fontana Arte, Poltrona Frau e Gervasoni.

Il fil rouge che vi lega è l’amore per la falegnameria…

Io e Oscar nasciamo, letteralmente, nella falegnameria che era della nostra famiglia. Fin da piccolo, la domenica andavo in bottega e costruivo lettini e mobili per le bambole delle mie amiche. Eravamo sempre fra i piedi – e le mani – degli operai. A quell’età, non sapevo come fare una cerniera e risolvevo tutto con un chiodo. Qui ho iniziato a capire che prima della produzione venivano il pensiero e il progetto, poi il disegno in scala 1:1 fatto sul compensato. La gomma per cancellare era la carta vetrata. Siamo cresciuti con la passione, imparando a comprendere proporzioni, tecniche, modalità costruttive. Abbiamo capito che bisogna sapere ascoltare operai e tecnici, ma anche saperli anticipare. La tecnica senza la cultura del progetto non è sufficiente per fare il designer, è una prerogativa di un buon fabbro, di un buon artigiano. Altro aspetto che si è rivelato fondamentale per la nostra crescita è stato il negozio di arredamento che completava la falegnameria, con prodotti di aziende storiche come B&B Italia e Molteni, Flos e Knoll, dove abbiamo scoperto alcuni tra i grandi maestri del progetto di arredo come Afra e Tobia Scarpa.

I fratelli Castiglioni, e poi i Campana, i Bouroullec… come lavorate in famiglia?

Il rapporto fra fratelli non lo scegli, ti capita e capisci che funziona e non ne puoi fare a meno. Nel nostro caso è un mix fra complessità e complicità. Io sono un po’ più esposto nella comunicazione con l’esterno, mentre Oscar rimane volentieri all’opera in studio, ma insieme portiamo avanti tutti i progetti importanti. Nella stessa giornata possiamo passare dalla scala dell’oggetto a quella dell’edificio, per arrivare all’interior e poi tornare indietro. È questo l’approccio che ci contraddistingue: capire, interpretare e saper padroneggiare la scala, uno dei fattori da cui deriva anche la qualità dei progetti. Pensare a una vite in una sedia è essenzialmente diverso che in un edificio.

Il Politecnico a sedimentare e organizzare il tutto…

La nostra generazione ha studiato architettura, non c’era separazione netta tra questa, l’interior e il design. Abbiamo potuto studiare intrecciando tematiche e scale diverse, pensando al ruolo dei mobili nel paesaggio domestico, nello spazio architettonico. Da ragazzi, frequentando falegnameria e showroom, avevamo intuito alcune cose, ma l’università ci ha aperto un mondo vasto ed entusiasmante, anche grazie alla conoscenza diretta di alcuni maestri. I grandi architetti internazionali li abbiamo studiati, ma Zanuso, Castiglioni e Mari sono stati nostri professori, Caccia Dominioni era in ogni via del centro di Milano, e che dire di Melchiorre Bega, lo straordinario interprete degli Autogrill Pavesini, o di Soncini e della Torre Tirrena in Piazza Liberty. L’università ci ha fatto scoprire la cultura italiana del progetto – Gio Ponti, Albini, Magistretti – e l’intuizione di questi grandi architetti. Fenomenali interpreti degli Anni 50 e 60, capirono che per arredare i loro nuovi edifici occorrevano mobili moderni disegnati e costruiti dagli artigiani brianzoli, che divennero così i principali attori di questo nuovo corso del design italiano e internazionale.

Arrivando all’oggi…

Dopo anni in cui arredo e architettura si sono un po’ persi, designer come Citterio e Lissoni hanno avuto la capacità di rioccupare e reinterpretare il concetto di architettura e paesaggio domestico, con nuovi strumenti di comunicazione che sono diventati l’idea stessa di collezione e di catalogo: lo showroom monomarca, le fotografie e l’immagine stessa dell’azienda. Sono convinto che il design italiano sarà ancora centrale in futuro se saprà continuare su questa strada, una strada che in altre parti del mondo non conoscono e non sanno percorrere. Indagare la bellezza e l’eleganza all’interno di una spazialità domestica del vivere bene, aspetti essenziali della cultura italiana del progetto. Interpretare istanze come la semplicità, l’essenzialità, la qualità delle materie prime, l’originalità delle loro lavorazioni e tenere vive sapienze antiche come tagliare, assemblare, cucire.

In voi ricorrono tre termini: spazio, tecnica, dettaglio. Come riuscite a concretizzarli nella vostra cifra progettuale?

Partiamo dai concetti fondamentali. Lo spazio, in primo luogo, le sue proporzioni, la luce come vero e proprio materiale e, infine, il disegno. Poi il concetto di precisione, che con il passare degli anni ci interessa sempre di più, una precisione trasversale, dall’idea alla forma, dal disegno alla tecnica, la precisione nel dettaglio e nella comunicazione. E poi un concetto non tecnico ma altrettanto importante, l’emozione. Non ho parlato di qualità perché questa è, o dovrebbe essere, normale.

E la luce… intesa come materia

La luce è uno dei materiali portanti dell’architettura e dell’interior. Il controllo di questa ‘materia’ e del suo opposto, ovvero il buio, è straordinariamente importante nell’insieme del progetto architettonico. La luce è un elemento dinamico, in grado di modificare, scandire ed esaltare lo spazio e gli ambienti, di cambiarne la percezione allo scorrere del tempo. Oggi, con il led, fonte luminosa miniaturizzata, il progetto di una lampada è essenzialmente il progetto di una forma che contiene la luce, della forma della luce stessa. Ogni tanto mi chiedo cosa avrebbe potuto inventare Castiglioni se avesse avuto a disposizione questa tecnologia.

Il prodotto. Non è mai fine a se stesso, so che siete molto attenti alla sua collocazione sul mercato

Il nostro ruolo di designer è quello di lavorare e di far lavorare le aziende. I prodotti che disegniamo e sviluppiamo devono essere venduti e messi nelle case. Lavorare in azienda, accogliere suggerimenti, sviluppare e mettere a punto modifiche, anche accettando critiche, è un’operazione essenziale per traghettare un progetto e farlo diventare un prodotto, senza sminuire il nostro apporto creativo. Come designer abbiamo responsabilità importanti: occorre conoscere la realtà aziendale, il suo mercato e le sue capacità, cercando di esaltarle.

Cosa ti piacerebbe progettare?

Il miglior progetto è sempre quello che farai domani. Ma voglio azzardare una risposta più precisa, che guarda caso fa riferimento alla scala del progetto. Mi piacerebbe occuparmi di temi opposti dal punto di vista della dimensione, come per esempio un set di posate o una torre.

Infine, che domanda vorresti da un giornalista che ti intervista sul design?

Più che una domanda, vorrei confrontarmi con un giornalista che abbia – e che sappia trasmettere – una buona capacità di lettura e di comprensione, anche critica, del progetto.