Bruno Munari. Tutto

Villa dei Capolavori, a Parma, ospita un’esposizione ‘totale’. Con 250 opere, tra arte, grafica e design, il genio munariano emerge dalla lampada in tutta la sua – immortale – attualità

di Cecilia Moltani

foto courtesy Studio Esseci

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È stato un designer? Un grafico? Uno scrittore? O un artista? Forse tutte queste cose insieme, a metà tra immaginazione e concretezza, creatività e pragmatismo, pensare e agire. Villa dei Capolavori, sede della Fondazione Magnani-Rocca a Mamiano di Traversetolo a Parma, ospita fino al 30 giugno 2024 una maxi-esposizione per celebrare uno dei più grandi geni creativi del Novecento, definito da Pierre Restany il Leonardo e il Peter Pan del design italiano: ‘l’inventore’ Bruno Munari (1907-1998).  

In Bruno Munari. Tutto sono concentrati settant’anni di idee e lavori in tutti campi della creatività, dall’arte al design, dalla grafica alla pedagogia: proprio per la difficoltà di dirimere i territori linguistici da lui affrontati nel corso del tempo, la rassegna non è suddivisa per tipologie o cronologia, ma per attitudini e concetti. “Munari”, spiega il curatore Marco Meneguzzo, “è una figura molto attuale nella società liquida odierna, nella quale non ci sono limiti fra territori espressivi. È un esempio di flessibilità, di capacità di adattamento dell’uomo all’ambiente. Il suo metodo consiste nello scoprire il limite delle cose che ci circondano e di volerlo ogni volta superare”.

Dopo essersi distaccato dal Secondo Futurismo, a cui aveva aderito nel 1927, Munari sviluppò uno stile personale e autonomo, fondato sull’ironia e il gioco. I suoi primi esperimenti alterarono la percezione della grafica e della tipografia, per poi spingersi verso l’esplorazione del mondo dei materiali e delle macchine. Tra i fondatori del MAC – Movimento Arte Concreta, indagò il campo dell’arte cinetica e programmata, di cui diventò uno dei protagonisti, e la coesistenza di moti organici e meccanici propria delle opere di Alexander Calder.

Munari agiva direttamente sui materiali senza dare nulla per scontato attraverso le fasi di manipolazione, sperimentazione e comparazione tipiche del suo metodo, acquisendo una conoscenza della materia che diventava parte integrante dei suoi progetti. Il designer, infatti, esordì sperimentando sulle geometrie rinvenute nella vita di tutti i giorni, nella natura o negli oggetti realizzati dall’uomo. Secondo il creativo, figure come cerchio, quadrato, triangolo e cubo non erano elementi bidimensionali perfetti e inalterabili ma geometrie capaci di trasmettere qualcosa di diverso a seconda di come venivano rappresentate.  

Per Munari la progettazione non era teoria, puro discorso, ma era vita, azione, gesto. Manualità. Anche con parole e scrittura Munari intrattenne un rapporto materico, concreto, trasformando i libri – troppo spesso a misura di adulto – in strumenti di apprendimento per bambini. Da qui l’intuizione di dare vita a volumi che comunicassero senza parole, illeggibili, e a laboratori per l’infanzia in cui Munari invitava i bambini a sviluppare le proprie capacità espressive in percorsi che, tra il fare e l’agire, consentivano loro di appropriarsi dei dispositivi per conoscere la realtà.

Con il suo lavoro sulle Macchine Inutili – composizioni aeree di elementi leggeri con gradi diversi di cinetismo – avvicinò la macchina al non-utile e l’arte all’utile. Una rivoluzione di pensiero accolta anche dal filosofo francese Pierre Hadot (1922-2010), nel volume Esercizi spirituali e filosofia antica: “Il vanto della filosofia sta proprio nel fatto di essere un lusso e un discorso inutile. Se nel mondo ci fosse soltanto l’utile, il mondo sarebbe invivibile. La poesia, la musica, la pittura”, e il design, aggiungeremmo noi, “sono anch’esse inutili. Esse non incrementano la produttività. Tuttavia sono indispensabili alla vita. Ci liberano dalle pressioni dell’utile”. La cultura in senso lato, quindi, non può essere un lusso, perché legata alla vita stessa. Perché bisogno elementare dell’uomo. Bruno Munari ci ha ricordato questo. Il che non è poco.