Luca Pignatelli

L’atelier di Luca Pignatelli a Milano è un luogo magico. Dove l’architettura industriale incontra un’arte sospesa tra forme classiche e sovrapposizioni astratte

di Anna Bisazza

foto di Helenio Barbetta

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Altezze vertiginose, lucernari abbaglianti, giochi di luce, stratificazioni segnate da un tempo indefinito tra elementi antichi e scarti industriali. Questo è lo studio dell’artista milanese Luca Pignatelli, noto per l’uso astratto di forme e immagini, impreziosite da una ricerca di materiali poveri e velate da una dimensione di tempo e memoria. Ma da ragazzo scelse architettura perché punto d’incontro tra un padre artista legato al mondo surreale e una madre psicologa che indagava il conosciuto. Farà tutti gli esami eccetto la tesi, una scelta esistenziale per marcare il passaggio alla pittura.

Da sempre affascinato dagli studi dei grandi maestri come Picasso, dove la monumentalità degli ambienti classici viene contaminata da frammenti di uso comune quali barattoli di aringhe con dentro pennelli, fogli di giornale buttati a terra ricoperti di colori, cocci da rigattiere accumulati nella speranza di incastrarli in una possibile opera.

Non è da meno il suo studio. Ex fabbrica meccanica, edificio del 1910, ci è arrivato un po’ per caso vent’anni fa durante una passeggiata nei pressi di piazza San Luigi, allora una bella zona con il sapore di un paesino, oggi la zona dove ha sede anche la Fondazione Prada. Colpito fin dall’inizio dal carattere incredibile, “un cortile che profumava di bucato e di arrosto” e il battito confortante delle campane. “Era un luogo abbastanza immenso, inaffrontabile. Io mi sono sentito di lanciarmici dentro”, dice l’artista che anche nelle sue opere ama il confronto con la grandezza di tele imponenti, nella speranza di vincere una sfida nel domarle. Enormi quadri diventano pareti che si muovono per poi magari partire in mostra svuotando improvvisamente lo spazio come una spiaggia segnata dalle maree.

“È stato un progetto non immediato con scelte non condivise perché mi sono sempre molto misurato con l’improvvisazione, col voler ogni tanto sorprendermi nel cercare di respirare nei luoghi qualcosa di più profondo”. I muri erano scurissimi, segnati dall’uso di tanti anni di lavoro e nel seminterrato un tesoro nascosto, un rifugio contraffatto per i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ha rivestito di legno i pavimenti, aperto porte da palazzo trovate in precedenza e ben proporzionate alle dimensioni degli ambienti. Un locale, quello con un piccolo lucernario che portava alle cantine, è diventato uno studio biblioteca stracolmo di libri dove ha ricostruito un cornicione leccese regalatogli da un amico.

Un altro ambiente, un po’ più intimo è stato la sua casa per un breve periodo quando è nata la prima figlia, poi con l’arrivo del secondo figlio si sono trasferiti in una dimora vera e propria anche per staccare dal costante pensiero immersivo del creare. Di luce naturale per dipingere ce n’è a dismisura ma è nel seminterrato che preferisce lavorare, abituato a dipingere e maneggiare gli antiruggine e i fogli di catrame sotto luci artificiali già nel vecchio studio in via Fogazzaro dove un tempo si fabbricavano pupazzi in stoffa.

Ed è proprio la luce che ogni giorno rappresenta per Pignatelli una grande sorpresa, “al piano terra arriva dall’alto per poi cambiare improvvisamente temperatura emozionale e illuministica nelle discese per poi risalire…come dentro una chiesa quando si scende dentro una cripta o si ruota intorno all’altare del coro”. Un simile iter emotivo è legato a dettagli decorativi che formano una sorta di albero genealogico dei luoghi di appartenenza della famiglia di origine. Ricorda il viaggio che facevano da bambini con il padre per andare in Puglia di cui era originario, e nel tragitto si fermavano ad Ancona, Pesaro e altri posti.

Anche qui, nel suo studio ritornano quegli stessi elementi autobiografici: dalle particolari porte azzurre marchigiane alle maioliche colorate che vengono dalla Puglia, Napoli e Sicilia, tutti luoghi in qualche modo intrecciati alla sua storia. Non sono da meno gli elementi giocosi quali le porte in ferro disegnate con l’amico fabbro, Ulisse Rusconi. “Ci sono due porte finestre che si aprono sul vuoto come un punto da cui gettare qualcuno nella vasca di pescecani, quelle cose legate anche a un certo cinema,” dice l’artista che per natura tende a far corrispondere con il gioco cose molto serie e importanti. “Ricerco molto la curiosità e lo stupore, fin dalle cose più semplici, come guardare per terra i segni dei binari del tram, che compongono delle forme ed esistono nella loro inconsapevolezza”.

È quasi tutto rotto nel suo studio come nei suoi quadri che contengono una continua sbeccatura e frammenti di materiali. “Nella perfezione si contempla come fattore determinante l’assenza di errore. Io invece cerco di rendere perfetto l’errore. Inserisco qualcosa che sia imperfetto e quindi capace di assumere una propria autorevolezza, unicità, irripetibilità, questo mi piace molto di più”.