Nick Maltese

Come una rockstar, Nick Maltese non segue gli stili ma li impone. Amante della sperimentazione e autore di interni eclettici, la sua firma è un tocco inaspettato, un dettaglio folle in grado di rompere schemi e aspettative

di Francesca Tagliabue

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“Non mi accontento di fare progetti che piacciono, desidero che i miei spazi raccontino qualcosa, che ci sia una storia dietro ogni singola scelta” dichiara l’architetto a capo di N+M Studio. Classe 1981, nonostante la giovane età è una delle firme più apprezzate nel mondo dell’interior design, dal residenziale al leisure. Partito da Reggio Calabria meno di dieci anni fa, oggi guida un team di dodici persone composto da personalità differenti, perché per lui la diversità è sempre un pregio. Nel lavoro e, soprattutto, nella vita.

In rete si trova pochissimo su di te, chi sei e come hai iniziato?

Ho sempre voluto fare l’architetto, vengo da una famiglia creativa, fin da piccolo ho avuto un mood diverso dai compagni di scuola. In prima battuta mi sono laureato in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali, il concetto di riqualifica e di far rivivere le cose mi ha sempre attratto. Ma non mi bastava. Sfogliando le riviste di settore sentivo che volevo creare qualcosa da zero, così a 29 anni mi sono iscritto nuovamente all’università e ho preso una seconda laurea in Architettura, finendo il ciclo di studi a 32 anni. Non è mai troppo tardi! In seguito, ho avuto il coraggio di lasciare la mia terra. Sono arrivato a Milano e mi sono trovato subito bene, questa città mi ha immediatamente offerto un ventaglio di opportunità che neanche potevo immaginare. Appena trasferito ho progettato gli interni di Pirelli 9, un bar davanti al Pirellone. Grazie alla fiducia del proprietario ho iniziato a farmi conoscere perché il locale ha riscosso un discreto successo. Da lì ho iniziato a lavorare sempre di più, prima da solo tra le mura di casa, poi in un piccolo negozio con saracinesca direttamente su strada, quindi ho avuto bisogno di collaboratori e di uno spazio più grande, così ho affittato un loft in viale Monza. A breve inaugurerò la nuova sede di quello che è diventato Nick Maltese Studio in zona Città Studi. Per la prima volta avrò una sala riunioni, è un grande traguardo. Sono orgoglioso di me, in soli sette anni sono passato dal non avere “un posto nel mondo” a guidare una solida realtà in cui sono coinvolte dodici persone. Mi sono dato da fare e ho raggiunto buoni risultati, ma voglio crescere ancora.

Come definiresti il tuo stile e il tuo approccio alla progettazione?

Mi è capitato di sentire delle critiche da persone che sostengono non ci sia un fil rouge che unisce tutti i miei progetti. In realtà ritengo che non avere uno stile codificato sia tra i miei maggiori punti di forza. Voglio sperimentare, sono ancora giovane e posso permettermelo. Mi sento un artista che può comporre con “materiali e colori”, voglio che la gente sorrida e sia felice quando vive gli spazi che ho firmato, amo contaminare e divertire. Certamente l’idea di base e il mood generale si basano sulla richiesta dei committenti, ma io sono solito guidarli verso soluzioni creative. Soprattutto nei locali pubblici, nell’entertainment, bisogna che le persone siano attratte da qualcosa, che abbiano voglia di entrare a scoprire un ristorante o un bar. Generalmente il brief si crea assieme, ma poi mi viene data ampia libertà di espressione.

Qual è un progetto che ritieni particolarmente riuscito e perchè?

Ce ne sono vari, ma certamente Otium ha un posto speciale nel mio cuore. Questo lavoro è stato selezionato dalla giuria internazionale del Bar and Restaurant Award nel 2019, un riconoscimento molto importante, ed è stato il primo a essere notato dai giornalisti e pubblicato sulle riviste. Otium si trova in un edificio di Gio Ponti nel centro di Milano, è un “ristorante metafisico” ispirato all’opera di De Chirico. Ricordo che da piccolo, in soggiorno, mamma e papà avevano appese delle riproduzioni dei suoi quadri, mi sono ispirato proprio a quelle vedute per dar vita a una sala surreale, con un soffitto che sembra sciogliersi, archi e luci soffuse. Sono molto legato anche ad Aqua perchè si trova a Reggio Calabria, sul lungomare Falcomatà “il chilometro più bello d’Italia” come disse D’Annunzio. Qui l’atmosfera è marina, ho immaginato cosa potesse succedere entrando in un relitto.

E che cosa mi puoi dire del tuo ultimo progetto, Frank?

Ne vado fiero, è un posto di tendenza, in un quartiere vivo, l’area di Porta Venezia a Milano. Ha un’atmosfera elegante ma rilassata. Il locale esisteva già da tanti anni, andava bene ed era molto frequentato. I gestori avevano in mente un restyling, li ho convinti a creare un’immagine completamente nuova. C’è un tocco industrial, qualcosa di leggermente underground e ci sono finiture metalliche minimaliste in contrapposizione a imbottiti in velluto e carte da parati con vedute paesaggistiche. L’atmosfera riporta al Greenwich Village e a New York, dà l’idea di un luogo sempre vivo, da frequentare in qualsiasi momento e in contesti differenti: per un pranzo di lavoro, per un drink, per una cena elegante. Ho voluto staccarmi dal mood del quartiere, oggi orientato verso il trend del vintage e del modernariato, e ho provato a creare un club. In questo senso mi sono concentrato sul suono e sulla musica, pensando a serate a tema, ho disegnato anche degli speaker che ricordano la forma dei vecchi grammofoni.

Di cosa si deve tenere conto quando si disegna un locale?

Solitamente un locale definito di tendenza ha un arco di vita che varia dai tre ai cinque anni; pertanto, l’investimento economico è calibrato su questo periodo. Spesso però mi è capitato che i clienti dessero feedback così positivi che gli interni non sono stati rinnovati e sono gli stessi da molto più tempo, penso a Otium o a I Mori. Oggi si deve anche pensare di creare spazi instagrammabili, le persone vogliono condividere, far vedere che sono state in un “posto figo”. È paradossale, me ne rendo conto. Da architetto dovrei pensare alla funzionalità degli spazi e all’ergonomia degli arredi, ma questo non basta. Tutto quello che è horeca deve essere bello, tutti i dettagli devono essere curati, le persone hanno sempre in mano il telefono e inquadrano letteralmente ogni angolo. La standardizzazione è stata abolita, le soluzioni sono sempre più customizzate e originali. È assolutamente importante, infine, che ci sia un’immagine coordinata, dal naming al logo, fino alla mise en place e all’outfit dei dipendenti. Ad esempio, per Frank ho disegnato la divisa del personale di sala, abbinando a una camicia coreana blu un maxi grembiule in denim color ruggine. Ricercato eppure semplice, come il ristorante.

Cosa cambia quando si approccia un progetto residenziale?

È un modo di lavorare completamente diverso, bisogna ascoltare il cliente perché deve vivere ogni giorno gli spazi, deve sentirli “casa” per stare a proprio agio. Ma i progetti tradizionali non fanno per me, aggiungo sempre un guizzo creativo da qualche parte, anche se scegliessi un total white ci metterei qualcosa di eclatante. Ad esempio, ho fatto case d’epoca in cui la volontà del cliente era quella di mantenere i dettagli decorativi e le finiture, ma ho inserito corridoi completamente neri per sorprendere, per fare qualcosa di inatteso. Non amo impormi, assecondo i gusti e le necessità, ma amo collaborare con chi si fida e mi lascia libertà di espressione. Altrimenti non avrebbe senso chiamarmi. Ho avuto clienti importanti, milionari e influencer, ma anche ragazzi che vogliono “un appartamento firmato Nick Maltese” e giovani coppie che mi stimano ma che non sono propriamente degli high spender. Il bello del mio lavoro è che permette un range di possibilità praticamente infinito per trovare soluzioni d’effetto in grado di rispettare qualsiasi budget.